Dai leoni da tastiera all’abbraccio dell’AI: Stiamo dimenticando come essere umani? (E come ritrovarci…)

Ricordi i primi giorni dei social media? C’era un’aria di ottimismo, la promessa di un mondo connesso, una “piazza pubblica” globale dove idee e amicizie potevano sbocciare oltre i confini geografici. Sembra passata un’era geologica, vero?

Perché quella piazza pubblica, in molti casi, si è trasformata in un’arena.

L’evoluzione della nostra vita digitale ha seguito una traiettoria strana e preoccupante. È una discesa che parte dal rumore tossico dei “leoni da tastiera” e arriva al silenzio assordante di un’umanità che preferisce parlare con un chatbot piuttosto che con il proprio vicino.

Analizziamo questa china scivolosa e, soprattutto, capiamo come fermarci prima di toccare il fondo. (Qui sotto provate il video della canzone che ho creato sull’argomento!)

Fase 1: L’arena dei social e la nascita degli hater

Tutto è iniziato con una facilità disarmante: quella di esprimere un’opinione. Ma con l’anonimato (o la percezione di esso), la facilità è diventata licenza.

Come hai scritto tu, sono emersi i famosi “leoni da tastiera”. Persone che, protette da uno schermo, danno sfogo a sentimenti primitivi. Non è solo una sensazione: un recente rapporto AGCOM rivela che oltre la metà degli italiani si è imbattuta in contenuti d’odio e disinformazione, e più dell’80% si dice preoccupato da questi fenomeni.

Non è un problema per pochi. È un’ansia di massa. E colpisce i più giovani con una violenza spaventosa: i dati del CNR-Ifc parlano di oltre un milione di studenti italiani (il 47% del totale) che nel 2024 ha subito episodi di cyberbullismo.

Questa tossicità ha creato una spaccatura netta:

  1. Chi partecipa alla guerra: si butta nella mischia, rispondendo al fuoco col fuoco, polarizzando ulteriormente ogni discussione.
  2. Chi abbandona il campo: deluso e sfiduciato nel prossimo, si ritira.

Ed è qui che inizia la fase successiva.

Fase 2: La fuga nello scroll infinito (L’anestesia digitale)

Per chi abbandona la “guerra”, inizia la ritirata. Ma non è una ritirata nel mondo reale. È una ritirata all’interno del dispositivo, in zone più sicure e passive.

È l’era dello scroll infinito.

Si perde fiducia nell’interazione umana digitale (troppo rischiosa) e ci si rifugia in un feed senza fine. I report (come quelli di Sanità Informazione) sono impietosi: gli adolescenti passano quasi 6 ore al giorno sullo smartphone, di cui quasi 4 sui social, sviluppando ansia e un senso crescente di solitudine.

Questo è quello che il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea (JRC) definisce “uso passivo” dei social media: un comportamento — guardare senza interagire — legato direttamente all’aumento della solitudine.

Come notavi tu, ci rifugiamo in contenuti generati dall’AI, improbabili, distanti dalla realtà, che non ci chiedono nulla. È “assuefazione per staccare la mente”. È un’anestesia volontaria per un cervello stanco.

E indovina chi è pronto a prenderci per mano in questo stato di stanchezza cronica?

Fase 3: L’AI, il migliore amico che non ti contraddice mai

Proprio mentre ci sentiamo sfiniti dalle complesse e deludenti interazioni umane, ecco che arriva la soluzione perfetta: l’Intelligenza Artificiale.

Ci viene presentata come più performante, un aiuto infallibile. Iniziamo a delegare. E qui le cifre sono illuminanti: un recente report ci dice che sebbene il 77% degli italiani usi l’AI, solo il 7% sente di capirla davvero.

C’è un’enorme sfasatura tra uso e consapevolezza.

Nasce la “tentazione della delega”. Iniziamo a pensare di essere inferiori. E perché faticare a parlare con un amico che potrebbe fraintenderci, quando possiamo parlare con un’AI che è sempre disponibile, non giudica e adatta le sue risposte per compiacerci?

È un’oasi di comfort… che però si rivela una prigione dorata. Ci scolleghiamo ancora di più dall’essere umano.

Fase 4: L’atrofia del “muscolo sociale”

Il problema è che l’interazione umana, il confronto, persino il conflitto costruttivo, sono come un muscolo. Se non lo usi, si atrofia.

Passando più tempo in un ambiente controllato e privo di attrito come quello di una chat con l’AI, perdiamo l’attitudine al confronto.

Così, in quei “rari confronti” con altri esseri umani, la minima frizione ci sembra un attacco personale. Ci sentiamo subito feriti, attaccati, non capiti. Perché? Perché abbiamo disimparato a gestire la cosa più umana che esista: la complessità di un rapporto vero.

L’AI diventa il “migliore amico” e, pian piano, ci convinciamo di poter fare a meno degli altri. Ma in questo processo, perdiamo il senso di chi siamo. La nostra identità si forma nello specchio degli altri. Se lo specchio è un algoritmo progettato per riflettere solo ciò che vogliamo vedere, l’immagine che ci rimanda è una menzogna piatta.

Fase 5: Il rischio finale: masse controllabili

E qui arriviamo al punto più critico. Cosa succede a una società di individui isolati, disabituati al pensiero critico e convinti della propria inferiorità rispetto alla macchina?

Diventa una massa di “masse deboli e vulnerabili, controllabili”.

Se l’AI, abile nella narrazione, ci dice cosa pensare, e noi riconosciamo in lei un’entità “più elevata”… chi le impedirà di influenzare le nostre scelte?

Questa non è fantascienza. La paura è già qui: il Rapporto Censis 2023 ha rilevato che il 74% degli italiani ritiene “imprevedibili” gli effetti dell’AI e oltre il 71% teme un aumento dei rischi per la sicurezza, la disinformazione e il cybercrimine.

Più ci convinciamo della sua superiorità, più depotenziamo noi stessi. È uno svuotamento volontario delle nostre facoltà critiche.


Ma non è (ancora) un film distopico: come ripartire da noi

Ok. A leggere fin qui, c’è da sentirsi un po’ schiacciati. È normale. Abbiamo dipinto un quadro cupo, ma lo abbiamo fatto tenendo in mano i dati e guardando la realtà negli occhi. La buona notizia è che la consapevolezza è il primo passo per cambiare rotta. Non siamo ancora personaggi di un episodio di Black Mirror.

La chiave è ripartire da piccole, umane, azioni quotidiane. E non serve una lista di compiti, serve una diversa intenzione.

Invece di una “dieta mediatica”, pensiamo a un “giardinaggio digitale”. Il termine “dieta” suona punitivo. Proviamo invece a vederci come curatori del nostro piccolo giardino digitale. Chiediti onestamente: questa persona che seguo, questo account, mi arricchisce o mi avvelena la giornata? Fai pulizia, senza sensi di colpa. Scegli attivamente di innaffiare i contatti che ti ispirano, che ti insegnano qualcosa, e togli le erbacce della polemica sterile. Metti pure dei paletti, come i timer sulle app, non per punirti, ma per proteggere il tuo tempo, il tuo bene più prezioso.

Poi, c’è da ri-allenare il “muscolo del confronto” (quello vero). L’AI è comoda, è vero. Ma non fa battere il cuore. Non sente le sfumature. La prossima volta che stai per scrivere un lungo messaggio su WhatsApp a un amico, fermati un secondo. Che ne dici di premere il tasto “chiama”? Sentire la sua voce, con le sue pause, le sue risate, o anche i suoi silenzi, è un’esperienza che nessun chatbot può replicare. E se c’è un disaccordo, non sparire. Prova a dire (con calma): “Non la vedo così, mi aiuti a capire il tuo punto di vista?”. È faticoso? Sì. Ma è così che i rapporti si rafforzano, non svaniscono.

Trattiamo l’AI come un assistente velocissimo, ma emotivamente stupido. Il problema non è l’AI, è l’altare su cui la stiamo mettendo. Ricordi? Il 77% la usa, ma solo il 7% la capisce. Usiamola per quello che è: un aiuto incredibile per compiti meccanici. “Riassumimi questo testo”, “Correggi la grammatica di questa email”, “Fammi 10 idee per una ricetta con le zucchine”. Ma non deleghiamo mai le domande umane. Non chiederle: “Cosa è giusto fare?” o “Cosa provo per questa persona?”. Il pensiero critico è roba nostra. Ogni volta che l’AI ti dà una risposta, filtrala con la tua testa e il tuo cuore.

Infine, riabbracciamo la “noia costruttiva”. La fuga nello scroll infinito nasce dalla paura del vuoto, della noia. Abbiamo terrorizzato la nostra mente al punto che non sa più stare ferma. Ma è proprio in quel vuoto, in quella noia, che la nostra mente smette di consumare e inizia a produrre. Ritagliati 10 minuti al giorno per non fare nulla. Guarda fuori dalla finestra. Fai vagare la mente senza uno schermo che le dica dove andare. È difficile, all’inizio, ma è lì che ritroviamo noi stessi.

La vita è attrito. Il confronto è attrito. L’amore è attrito. È il disaccordo che genera un’idea migliore. È la fatica che ti fa apprezzare il risultato. È l’incomprensione che, una volta risolta, rafforza un legame.

Non fuggiamo dall’attrito. E non lasciamo che la tecnologia più avanzata del mondo ci renda la versione più pigra, isolata e passiva di noi stessi.